LA VOSTRA GUIDA NEL BOSCO

Io vi guardo, tutti, uno a uno. Vi fermate davanti alle enormi vetrate del pianterreno e ammirate, sognate (di viverci), fantasticate (sui residenti o affittuari che siano), cercate (uno sguardo complice, mio) ecc ecc. Ma io non mollo. Non mi faccio nè intimorire, nè intenerire. Io son Calogero Glifico, per gli amici Gero. E faccio il vigilantes. Nel posto più fico del mondo: il “Bosco Verticale”. Sto qua dentro, faccio il turno di 8 ore, e poi me ne vado. Inosservato. Perché so mimetizzarmi, tra voi.

IL PILOTA E MARGHERITA

Il pilota correva in moto persino su per la passerella pedonale che dal Quartiere portava in città, si diceva così, ai tempi, per indicare il centro di Milano. Sfrecciava via su quella strisciolina sospesa dove adesso ci sono il Bosco Verticale e Piazza Gae Aulenti, già fino al Corso Como. Era talmente abile, sulla sua moto, che sarebbe potuto andare ovunque.
E infatti è arrivato in capo al Mondo.

LA GUERRA DI MARIO

Trascinava i piedi, ormai, da qualche decennio in giro per il quartiere. “Mi sun nasù qi!”, raccontava cento volte alla settimana, a rari sconosciuti e, soprattutto, ai tanti conosciuti.

“Sì, lo sappiamo che sei nato qui, lo sappiamo che là dietro c’erano i campi, che c’erano i tedeschi, eccetera eccetera”. I ragazzi dell’Isola, quelli che ci erano nati e quelli che ci erano arrivati per occupare vecchie case non risanate e poco riscaldate, conoscevano ormai bene le parole di Mario. Il nuovo Millennio era appena sorto, ma il suo orologio interiore, il suo meccanismo della memoria, era impigliato in qualche stanza buia del secolo scorso. “Sti atenti fioei, che bumbarden!” gridava ogni tanto all’improvviso, magari in coincidenza di una lontana sirena di ambulanza, oppure nel silenzio più assolato di una mattina di fine maggio, quando nessun rumore riportava al tempo di guerra. All’Isola tutti salutavano il Mario.

UN’OASI

Quando a Milano la luce era spenta; quando Milano non era in cima alle classifiche di gradimento;  quando Milano, insomma, la città in cui sono nato,  era morta (un decesso durato, anno sì, anno no, un ventennio), sapevo che, nel deserto della decadenza urbana, c’era un’oasi di vita.

Sapevo, perciò, dove mi sarei potuto salvare.

E, allora, finito di cenare, rapidamente, avrei inforcato la bicicletta dalla mia casa di Porta Venezia. Col freddo e col caldo, avrei percorso rapidamente viale Tunisia, facendo slalom tra le macchine in doppia fila e quelle sulla carreggiata, avrei attraversato il cadavere nero della mia infanzia, le Varesine abbandonate e, altrettanto rapidamente, mi sarei fatto largo nell’enorme e vuoto spiazzo tutto intorno.

Avrei girato poi brevemente in Gioia, attento a non incocciare altre macchine, rallentanti perché in cerca di amori clandestini. Ma non me ne sarei curato, perché sapevo che la salvezza sarebbe stata una svolta a sinistra.

Prima di lontano e poi sempre più vicino, le luminarie in vetta alla fabbrica scomparsa avrebbero rappresentato l’approdo, la soluzione al mio tedio, alla mia ansia d’altri.

Avrei posato la bici a un palo di  via Confalonieri (oppure di via de Castillia,? era lo stesso) e sarei entrato nei vani che trasudavano di lavoro antico, ora rimessi a nuovo, lì per noi: una sera avrei ballato, un’altra avrei amoreggiato, un’altra ancora mi sarei ubriacato di esistenza. Perché, alla Stecca, l’oasi, il deserto non c’era. Euforico, contento, salvo, ora a piedi, avrei percorso quella che chiamavo la Main Street, via Borsieri, prima un salto veloce nel bar gestito da due ragazze omosessuali, poi un altro salto, ancora più veloce, al Nordest. Si sarebbe fatta la mezza, l’una o le due e avrei innestato la marcia indietro per girare in via Dal Verme. E mi sarei calato giù, senza salvagente, nell’antro infernale del Pergola, dieci metri quadri di Brixton, di Giamaica o di Senegal traslocati a Milano, tutti sudati, tutti ancora amoreggianti, tutti salvi.

Dalla noia che regnava altrove, dalle convenzioni borghesi, dal divertimentificio navigliesco. O da quello, orrendo, di Corso Como, allora fortunatamente lontanissimo, perché l’Isola era l’Isola e ponti e passerelle non ce n’erano. Poi, alle luci dell alba, con il sole che faceva capolino sulle torri abbandonate, avrei recuperato la bici. Faticosamente, eppure a malincuore, mi sarei allontanato, consapevole che la salvezza, altrove, non sarebbe arrivata.

AAA APPARTAMENTI CERCASI

La signora Rita ci aveva passato la vita in quei 60 mq.
Calpestabili, come le faceva notare il ragazzo dell’agenzia, che a venderli ne venivano fuori di più.
“Meglio per lei sciura” aveva ammiccato con quella faccia di gomma.
Un bravo fioeu, niente da dire. Lo aveva fatto accomodare in salotto per un caffè con i fiocchi.

SE SOLO POTESSI PARLARE

Quante ne ho viste in 50 anni. Di tutti i colori. Ho ospitato bambini, giovani, famiglie, anziani, lavoratori e studenti. Ma anche inglesi, portoricani, americani, australiani, cinesi. Molti non li ho conosciuti, con altri ho trascorso diverso tempo. Alcuni sono passati e passano ancora oggi, altri arrivano per restare e non ripartire più, così devo dire loro addio. Se solo potessi parlare, potrei raccontarne di storie… ma sono discreta. Lo sono sempre stata. Ho lasciato che tutti pensassero e parlassero per i fatti loro, non mi sono mai intromessa.

Quello che posso raccontare è quanto sono cambiata io in questi anni, quanto è cambiata l’Isola, che mi è così vicina da essermi stata messa anche davanti al nome. Certo, negli ultimi dieci anni si ? proprio trasformata, ed io con lei, però, nonostante un po’ di malinconia, è giusto così. È il progresso che avanza e con lui tutto ciò che c’è intorno. Di fronte a me guardare la nuova piazza Gae Aulenti è stupefacente, ancora non riesco a crederci.

Io non posso muovermi, sono sempre qui. Ascoltare quotidianamente uomini e donne parlare dell’Isola e di quanto sia cambiata mi affascina molto. Mi verrebbe voglia di abbandonare casa e spostarmi, ma non posso permettermelo. Sono utile per troppe, tante persone, che vanno, vengono, e a volte restano. Così mi devo accontentare di quanto mi viene raccontato, ma ogni tanto mi affaccio in via Pepe per sbirciare e capire quanto il nostro amato quartiere sia diverso da prima.

Via Borsieri, con ristoranti e negozietti, non solo ospita tanti milanesi ed isolani, ma anche i turisti stranieri. Piazza Archinto è per alcuni la Piazzetta – è diventata teatro di aperitivi e di serate affollate da giovani. Via Volturno ospita mia cugina Lilla. Eppure, l’aria è sempre la stessa, ed il mercato del martedì e del sabato lo dimostra. Le signore con carrellini e borse della spesa mi passano a trovare per andare da una parte all’altra della città.

Anche io però sono cambiata, non solo nel look, ma anche interiormente. Una volta ero piccola, ma piano piano con gli anni sono cresciuta. Sono diventata grande, e non per mia volontà ma perché era necessario. Oggi ospito negozi, librerie, bar, ristoranti… Negli anni Sessanta non ci avrei di certo creduto. Non so se è una cosa positiva o meno, ma di sicuro mi sento più protagonista.

Ora voi penserete che sono una narcisista? Forse è così, lo sono davvero. In tutti questi anni qualche riconoscimento me lo sarò guadagnata o no?! Ho accolto e riscaldato tutti, senza differenze, nelle serate gelide dell’inverno, ed anche in quelle giornate di luglio, quando non vedevano l’ora di lasciare Milano per andare qualche giorno a riposarsi in riva al lago. Mi sono sempre data da fare, per tutti, e continuerò a farlo.

Non sarà certamente qualche cambiamento di stile a trasformare la mia anima. Io rimarrà sempre me stessa. Il mio obiettivo è quello di accogliere ed essere utile agli altri: qualcuno di voi ci riesce?

L’ISOLA DI MILANO

Se Milano è il luogo dell’affanno produttivo, all’Isola il tempo rallenta. Nessuna zona può vantare una simile atmosfera, qui il rumore del traffico si allontana – per la difficoltà di trovare parcheggio e per il dedalo di sensi unici che scoraggia gli automobilisti. Le persone si salutano per strada.

#PCFI

Non ce la faccio. Non sono ancora riuscito a capire come uscirne. Improvvisamente mentre meno me lo aspetto, mi colpisce. E fa male. Un male di dolore intimo. Ogni volta che riaffiora un ricordo, una violenta scarica mi percuote da dentro fino allo sfinimento. Non so cosa mi abbiano fatto o se mi sono causato qualcosa da solo. Immagini nitide, ben impresse nella mia memoria, riaffiorano all’improvviso e poi il dolore arriva, e svengo.
Sono vent’anni che sono su Marte e che mi sono arruolato come giornalista per raccontare la colonizzazione di questo pianeta. Le Nazioni non esistono più e le Città-Stato sono governate dalle Corporazioni. Ora Milano – da dove sono partito – Torino e Genova sono un’unica entità amministrativa, governata da il Guru, e l’Isola – il mio quartiere – è il Distretto Capitale. Là c’è la sede ufficiale del Governo, uno Ziqqurat di cristallo, centro di ogni potere. Le città sono fatte così oggi. Una pseudo democrazia elettiva gestisce amministrativamente il territorio, la Corporazione lo fa politicamente e giudiziariamente…

LINDARIA VA IN CITTÀ

Ciao mi chiamo LINDARIA, o meglio mi chiamo DARIA, ma da quando è nata quell’appiccicosa di mia sorella LINDA, ci si sono appiccicati anche i nomi. A volte anche la mamma ci chiama Lindaria perché dice: “Così faccio prima!”.

Sì, perché mia mamma, meglio chiarirlo subito, è una che va sempre di fretta. O meglio: è una gran pasticciona che va sempre di fretta e questo complica un po’ le cose perché + va veloce e + fa casino.

Abitiamo in zona Isola, un quartiere di Milano che è esattamente come tutti gli altri quartieri di Milano, né più né meno. Peccato che io non abbia capito quali siano esattamente gli altri quartieri di Milano. Cioè credetemi, ho chiesto un po’ in giro: ma tu dove abiti? In che quartiere stai? Come si chiama? Ma ve lo giuro, non ci ho cavato un ragno dal buco, al massimo il nome di qualche via: per il resto solo tanti bah, qualche boh, un sacco di non so. Insomma, ogni volta la gente mi guarda con quella faccina-emoticon con gli occhioni spalancati grandi-grandi.

Comunque, io abito qua e anche se forse non sarà il posto + bello del mondo (anche se forse sì!), la mia mamma mi ha insegnato che nella vita bisogna sempre vedere il bicchiere mezzo-pieno (sarà per questo che lei si beve un sacco di aperitivi in piazzale Archinto!).

Vi potrei fare almeno 4 mila miliardi di esempi di cose che mi piacciono del mio quartiere, ma la mamma dice che oggi siamo di corsa (strano!) e quindi vi faccio solo 4 esempi:

– nel mio quartiere c’è un BOSCO verde, pieno di piante, ma messo in VERTICALE (ve lo giuro!).

– per le strade del mio quartiere ci si saluta tutti, pure troppo. Che poi saluta oggi, saluta domani, saluta qui, saluta là, saluta il fabbro, saluta il panettiere, io faccio sempre tardi a scuola e la maestra Marzia mi sgrida.

– in giro per il quartiere è pieno di clown, di scrittori, di attori. E la mamma dice: È sempre meglio che lavorare! Chissà cosa vorrà dire.

– nella scuola del mio quartiere c’è una classe (la mia!) dove ci sono bambini di mezzo mondo, mezzi cinesi, mezzi marocchini, mezzi olandesi, mezzi americani, ma la maestra Marzia dice che tutti insieme facciamo due volte casino.

Ora però vi devo salutare perché siamo in partenza. La mamma è stata chiara: Lindaria, non si può stare sempre qui piantate in via Borsieri come due oche da patè… bisogna uscire, vedere il mondo!

Oggi ce ne andiamo a Milano e vi mandiamo una cartolina da lì… anzi una postcardfrom(out)isola.

PIAZZALE LAGOSTA BLUES

Avete mai provato quella sensazione per cui vi svegliate sotto un albero col collo piegato a 90 gradi contro la corteccia dello stesso e il corpo lungo e disanimato steso come un’ombra al sol del pomeriggio?
Avete mai provato quella sensazione per cui di sicuro siete bagnati di urina ma con grande probabilità non è la vostra ma quella di un cane che passava di li?
Oppure quella sensazione di essere guardato da tutti con miserevole sguardo e schifo in commistione?
Probabilmente c’è una testa fracassata in questa storia. Che sia la mia, questo è da vedere.
Intanto guardo da sotto il platano in questa falsa primavera distorta il sole che filtra tra il fogliame e fin qui va tutto bene.
I tram che passano proprio ad un metro scarso da me mi danno ristoro. Sferragliano ariosi e fanno vento. Il fresco mi aiuta ad essere lucido. A riprendere coscienza. C’è il mercato poco più in la. Sento il rumore del girarrosto. Chissà se un giorno salterà in aria portandosi dietro il palazzo della Lupa e la portinaia che abita al pian terreno? Riesco a fare pensieri belli e fecondi talvolta.
è una mia qualità.
Ne ho altre. Molte altre. Ma qui adesso gira tutto. Sono al centro della rotonda. Clacson, voci, fiori.
Clacson è una parola difficile, me ne rendo conto.
La fermata della 60 è piena di gente coi sacchetti. La 60 fa il giro del mondo. È il traghetto che porta fuori da Isola. Mi piace la 60. Mi piace molto.
Sento la nuca bagnata. Sarà sudore. Cola qualcosa dentro il collo del barbour nuovo. Riesco a vedere le mie scarpe nuove. Nere, lucide, lisce, con qualche dettaglio rosso. Non so ancora se mi piacciono o no.
Come sono finito qui?
Mi fa male la testa. Non ho pasticche.
Ma soprattutto perché nessuno mi porta un caffè?.
Perché non vedo arrivare nessun cameriere?
Questa zona è piena di locali ma qui al centro della rotonda non trovi un caffè a pagarlo oro.
Spesso mi capita di fare sogni fantastici. Questo non è uno di quelli.
Una volta, se ricordo bene, ho sognato di essere buco nero.
Mi trovavo in un posto qualunque dello spazio. Era tutto calmo intorno. Le stelle c’erano. Non c’era aria ma io stavo bene e risucchiavo tutto quello che potevo risucchiare.
Adesso mi sembra di starci dentro. Un buco nero dentro un buco nero.
Super risucchio!
Devo smettere di tergiversare.
Ci sarà qualche appiglio.
C’è questa ragazzina di fianco a me. Sento della musica che esce dalle sue cuffiette.
Ecco l’appiglio. Conosco la canzone.
Tanananan tadam bum bum bum che cazzo di canzone è?
La conosco bum bum non ricordo le parole. Cazzo che mal di testa.
La ragazzina inizia a ballare un po’. Potrebbe essere mia figlia da grande. Mi manca mia figlia.
Cazzo come balla bene. Poi si piega verso di me e mi tende una mano, non per prendere la mia. Supera la mia faccia e con le dita infila nel mio orecchio un auricolare della sua cuffietta.
Posso ascoltare la canzone. Sento le parole.
“I could make you happy, make your dreams come true
Nothing that I wouldn’t do
Go to the ends of the earth for you”
E alla fine forse ci sono arrivato. La ragazzina mi tende la mano, io non riesco a muovere il braccio. Allora si china completamente e afferra la mia mano inerte. La tira su di peso. Il mio braccio si stacca da terra. Scivolo sul fianco sinistro. La mia zucca rimbalza sul selciato sconnesso. Non sento dolore. Sento la musica.
Non sento i tram. Non sento la gente vociare. Il girarrosto è sparito. Sento la musica.
Poi appare Tiger Woods, nero ed elegante. Alza per bene la mazza in aria, si piega sulle ginocchia e con grande stile mi colpisce sulla tempia destra e la mia testa inizia a volare su tutto il quartiere.
È bella Isola vista dall’alto. Posso vedere casa mia, il mio ristorante preferito. Il bar dove faccio colazione ogni santo giorno. Casa di amici. Amici. E poi la testa cade e rimbalza. Rotola e si appoggia a un muretto. Gli occhi verso la pietra. Non vedono niente.