Trascinava i piedi, ormai, da qualche decennio in giro per il quartiere. “Mi sun nasù qi!”, raccontava cento volte alla settimana, a rari sconosciuti e, soprattutto, ai tanti conosciuti.
“Sì, lo sappiamo che sei nato qui, lo sappiamo che là dietro c’erano i campi, che c’erano i tedeschi, eccetera eccetera”. I ragazzi dell’Isola, quelli che ci erano nati e quelli che ci erano arrivati per occupare vecchie case non risanate e poco riscaldate, conoscevano ormai bene le parole di Mario. Il nuovo Millennio era appena sorto, ma il suo orologio interiore, il suo meccanismo della memoria, era impigliato in qualche stanza buia del secolo scorso. “Sti atenti fioei, che bumbarden!” gridava ogni tanto all’improvviso, magari in coincidenza di una lontana sirena di ambulanza, oppure nel silenzio più assolato di una mattina di fine maggio, quando nessun rumore riportava al tempo di guerra. All’Isola tutti salutavano il Mario.
L’osteria aveva sempre un bicchiere di rosso per lui, il prestinaio teneva da parte un sacchetto con un francesino ogni mattina, i giovani con l’orecchino al naso lo salutavano. Una volta su quattro rispondeva qualcosa, poi si infilava nel suo portone in Via Pepe e spariva per qualche ora, per qualche giorno.
Chi lo conosceva si era affezionato a questo strano vecchio, spesso silenzioso e burbero, con due occhi da buono che spuntavano dalle orbite rosse, sempre irritate dal freddo, o dal caldo, o dal diavolo sa che cosa. Quando non lo vedevano in giro da un po’, il prestinaio e l’oste, i ragazzi con l’orecchino al naso e il ghisa e il custode del mercato coperto iniziavano a domandarsi dove fosse finito. Passavano, come fosse per caso, davanti a quel portone di Via Pepe, sperando di vederlo nuovamente uscire. Poi di colpo riappariva, più vecchio di qualche giorno, con gli stessi occhi e le labbra secche, e ricominciava a girare per il quartiere, a raccontare quella storia nascosta tra le nebbie della Storia. “Carogna d’un tudesch, nimal d’un fascista!”.
Un giorno, era una giornata di una delle ultime mezze stagioni di Milano, vide sul bordo di via Confalonieri dei ragazzi che urlavano e protestavano. C’era il ghisa che li teneva d’occhio, e loro che alzavano i loro cartelli. “Giù le mani dall’Isola”. “Speculazione edilizia, il nuovo fascismo”. E urlavano e fischiavano: “Fascisti, fuori dall’Isola!”. Il ragazzo con l’orecchino al naso lo vide passare di lì, lo salutò e quasi lo abbracciò. Mario si scostò: “Sta sù de doss, fioe!”.
Il ragazzo rise di gusto. “Mario, guarda cosa vogliono fare qui!”, gli disse mostrando dei disegni che raffiguaravano palazzi altissimi, guglie, una foresta sospesa nel cielo blu dell’Isola. “E non ci hanno chiesto niente, a noi che abitiamo qui: sono dei fascisti, Mario!”. Attorno a loro la piccola manifestazione si era raccolta in cerchio, quasi aspettando, chissà perché, che Mario dicesse la sua. “Fioei, mi chi sunt nasù, e che la roba là”, disse indicando i disegni dei grattacieli “la me pias propri propri no. Ma va no a tira man i fasisti. I fasisti eren un’altra roba: fideves de mi che li ho coniusciu: parola del Mario, nom de battaglia Padùla”.
Sorrise, girò le spalle a tutti e fece per andarsene col suo passo storto. Il giovane con l’orecchino al naso gli gridò: “Nome di battaglia Padùla? Mario, che storia è questa, raccontacela”. “Ma lassa sta, en robb insc’ vecc che me se ricordi pu nient. Però, varda, cunt el me nom de battaglia, Padùla, sunt fini ancha in una canson dela Vanoni”.
Se ne andò nel silenzio, era una delle ultime giornate di mezza stagione, l’ultima mezza stagione di Milano. Fu l’ultima volta che videro Mario, nome di battaglia Padùla: frechass e vita del mè Milan.