L’ISOLA DI MILANO

un racconto di: Alberto Pellegatta

Milano 1978, poeta e critico, ha pubblicato L’ombra della salute (Mondadori 2011). Scrive d’arte (L’artista, il poeta, Skira 2010) e collabora come critico con giornali e riviste. Dirige la collana “Poesia di ricerca” per Edb Edizioni Milano.

Se Milano è il luogo dell’affanno produttivo, all’Isola il tempo rallenta. Nessuna zona può vantare una simile atmosfera, qui il rumore del traffico si allontana – per la difficoltà di trovare parcheggio e per il dedalo di sensi unici che scoraggia gli automobilisti. Le persone si salutano per strada.

A due passi da Brera, incistata sulle mura spagnole del Seicento, dove l’antica via per Como iniziava il suo percorso passando per l’attuale via Borsieri, fino al Dopoguerra l’Isola era un nucleo semirurale sviluppatosi intorno a due conventi. Il primo era quello delle suore francescane dette d’Egitto di via Confalonieri, con scuola materna e elementare, bombardato e poi espropriato per la costruzione della metro, mentre l’altro, dedicato a S. Maria alla Fontana, fu voluto da Carlo II d’Amboise, cinquecentesco governatore di Milano, guarito dall’acqua della fonte locale, là dove sorsero due secoli dopo le Fonderie Napoleoniche. Il Cesariano indica il complesso come una delle tre strutture sanitarie più importanti della città, insieme a Ca’ Granda e al Lazzaretto: luogo dove “li richi che forse de ogni negritudine vorano essere curati”. Nel 1787 fu convertito in parrocchia, ricavando un ampliamento del quartiere da una porzione del soppresso cimitero di Porta Comasina – in cui erano sepolti Beccaria e Parini, spostati nel 1895 al Monumentale. Il progetto della chiesa fu a lungo attribuito a Leonardo, fino alla recente scoperta di un contratto del 1508 in cui l’architetto Amadeo compare come progettista – autore di interventi come il tiburio di S. Maria delle Grazie, i chiostri di S. Ambrogio, il palazzo arcivescovile e il Lazzaretto.

Lo stile prevalente del quartiere è decisamente il liberty ma ritroviamo anche gli unici edifici milanesi dall’enfant prodige del razionalismo Giuseppe Terragni – in piazzale Lagosta per i galleristi Ghiringhelli, in via Perasto e in via Guglielmo Pepe, con un edificio che sembra anticipare elementi della Scuola di Chicago e potrebbe stare sul lungomare di Miami. (?) Il boschetto di viale Restelli, lasciato in eredità dalla contessa “Sommaruga” al Policlinico, è stato invece abbattuto per fare posto al nuovo palazzo della Regione Lombardia, ribattezzato dagli abitanti il Formigone e costato oltre 500 milioni di euro – il più grosso investimento pubblico a Milano dai tempi del Castello Sforzesco. Anche durante la dittatura l’Isola, ruspante e coesa, offriva il terreno ideale per la resistenza: un numero considerevole dei suoi abitanti combatterono i tedeschi in val d’Ossola. A perpetuare la memoria della liberazione venne posto in via Sassetti nel ’72 il monumento di Carlo Ramous, ora in piazzale Segrino.

Se via Maroncelli è considerato il rifugio delle gallerie d’arte sfrattate da Brera e via Manzoni per lo stalking della moda (Milione, Vinciana, Grazia Neri ecc), l’Isola si è riempita dagli anni ’70 di atelier di pittori – anni di osterie e bische clandestine. Maestri come Costantino Guenzi, Giancarlo Ossola, Giovanni Campus hanno avuto qui i loro studi. A dispetto del nome, il quartiere è sempre stato molto legato a Brera, anche i magazzini della Scala si trovavano in via Tito Speri. L’isolamento ci ha risparmiato dal chiasso modaiolo di corso Como e ha conservando un nobile senso di decoro legato al lavoro e alla cultura – col Teatro Verdi e la Sala Fontana, le gallerie d’arte, i liutai, i sarti, i fabbri, i lattonieri. E con un numero di librerie superiore alla media cittadina: Les Mots di via Carmagnola, Isola Libri in via Pollaiuolo, la BK o quella di viale Stelvio.

(in Quartieri di poesia, Meravigli, Milano 2016)

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