UN’OASI

un racconto di: Matteo Cruccu

È nato a Milano nel 1977, Ha iniziato la sua carriera al “Giorno” e dal 2000 scrive sul Corriere della Sera, occupandosi di rock’n’roll, di calcio e di diverse altre cose per il sito corriere.it. Nel frattempo ha scritto e lavorato anche per: Diario, Sette, Dove, Tribe, Domus, Associated Press, Adn Kronos, Radio Milano Uno. “EX- Storie di uomini dopo il calcio” (Baldini & Castoldi) è il suo primo libro.

Quando a Milano la luce era spenta; quando Milano non era in cima alle classifiche di gradimento;  quando Milano, insomma, la città in cui sono nato,  era morta (un decesso durato, anno sì, anno no, un ventennio), sapevo che, nel deserto della decadenza urbana, c’era un’oasi di vita.

Sapevo, perciò, dove mi sarei potuto salvare.

E, allora, finito di cenare, rapidamente, avrei inforcato la bicicletta dalla mia casa di Porta Venezia. Col freddo e col caldo, avrei percorso rapidamente viale Tunisia, facendo slalom tra le macchine in doppia fila e quelle sulla carreggiata, avrei attraversato il cadavere nero della mia infanzia, le Varesine abbandonate e, altrettanto rapidamente, mi sarei fatto largo nell’enorme e vuoto spiazzo tutto intorno.

Avrei girato poi brevemente in Gioia, attento a non incocciare altre macchine, rallentanti perché in cerca di amori clandestini. Ma non me ne sarei curato, perché sapevo che la salvezza sarebbe stata una svolta a sinistra.

Prima di lontano e poi sempre più vicino, le luminarie in vetta alla fabbrica scomparsa avrebbero rappresentato l’approdo, la soluzione al mio tedio, alla mia ansia d’altri.

Avrei posato la bici a un palo di  via Confalonieri (oppure di via de Castillia,? era lo stesso) e sarei entrato nei vani che trasudavano di lavoro antico, ora rimessi a nuovo, lì per noi: una sera avrei ballato, un’altra avrei amoreggiato, un’altra ancora mi sarei ubriacato di esistenza. Perché, alla Stecca, l’oasi, il deserto non c’era. Euforico, contento, salvo, ora a piedi, avrei percorso quella che chiamavo la Main Street, via Borsieri, prima un salto veloce nel bar gestito da due ragazze omosessuali, poi un altro salto, ancora più veloce, al Nordest. Si sarebbe fatta la mezza, l’una o le due e avrei innestato la marcia indietro per girare in via Dal Verme. E mi sarei calato giù, senza salvagente, nell’antro infernale del Pergola, dieci metri quadri di Brixton, di Giamaica o di Senegal traslocati a Milano, tutti sudati, tutti ancora amoreggianti, tutti salvi.

Dalla noia che regnava altrove, dalle convenzioni borghesi, dal divertimentificio navigliesco. O da quello, orrendo, di Corso Como, allora fortunatamente lontanissimo, perché l’Isola era l’Isola e ponti e passerelle non ce n’erano. Poi, alle luci dell alba, con il sole che faceva capolino sulle torri abbandonate, avrei recuperato la bici. Faticosamente, eppure a malincuore, mi sarei allontanato, consapevole che la salvezza, altrove, non sarebbe arrivata.

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