Zemfira è sempre stata bella, due occhi grigi profondi, la pelle scura come il bronzo e dei lunghi capelli corvini. È nata nel villaggio di Hadareni, ma quando tre rom sono stati uccisi la sua famiglia ha deciso di scappare verso l’Italia. A Milano. Dei cugini avevano detto che in Via Adda c’era una casa occupata dove vivevano tante famiglie “anche se la polizia ogni tanto ti mandava via”.
Milano le sembrava una città incredibile. Le luci e le case alte. Era abituata al suo villaggio: le galline i cavalli le mule.
Zemfira osservava il suo nuovo mondo, si immaginava con dei jeans a vita bassa e le All Star, al posto di quella lunga gonna a fiori con i calzettoni di spugna e le ciabatte. Aveva imparato a strimpellare la fisarmonica da sola, chiudeva gli occhi, suonava e andava lontano. La suonò tutta la notte anche quando li sgomberarono da Via Adda.
Trovò una sistemazione in Via Pepe con altri rom scappati da altri sgomberi. Scavalcava con una scala nascosta sotto l’edera. Con quelle gonnellone era ogni volta un miracolo. Rideva come una pazza: “Non sono capace!” “Dai svelta che nessuno deve vederci, altrimenti lo dicono alla polizia”.
“Andrea, smettila con quella videocamera. Spione!”, ” Arrivo!” che sono stregato da come vivono questi. Costruiscono una baracca al giorno in tempo zero!”.
Andrea di anni ne aveva 24, studiava da documentarista. Filmava e zoommava su ogni cosa, con quella digitale guadagnata con il lavoro nel baraccio di Dergano.
Alla Stecca degli Artigiani ci passava molto tempo, era uno dei più attivi. L’aveva occupata “perchè l’arte doveva avere spazi gratuiti per esprimersi!”.
Un giorno scoprì per caso quel piccolo insediamento di baracche e decise di nascondersi dietro le assi della finestra per continuare ad osservarlo. Era autunno, il fumo saliva. Carrelli usati come cucina, bidoni diventati stufa, docce fatte di coperte marroni con le tigri impresse che ti guardavano severe. Gli piaceva talmente quel modo di autorganizzarsi che diventò la sua ossessione.
“Il baffo” come lo chiamava lui, lo aveva minacciato: “se ti vedo ancora ti tiro palottola in testa!”. Con quelli mica si scherzava, vivevano in quel modo lì, non doveva esser facile. E lui sapeva bene che loro non avrebbero mai capito la sua semplice curiosità.
Un sabato sentì il suono della fisarmonica. Una melodia allegra malinconica e stonata, lui chiuse gli occhi, poi li riaprì: e vide Zamfira. Un fascino potente. Magnetico. Ne sentì il calore in quel freddo pungente novembrino. Iniziò a zoomare, a filmare. Perso nel video che ne sarebbe uscito, inebriato da quel suono. Da lei. Provò ad annusarla tanto che si sporse facendo scricchiolare il legno. La donna più vecchia del campo lo vide. L’assito si ruppe, “il baffo” arrivò con quel fucile a pallettoni e gli sparò urlando.
Zemfira, allora si alzò in piedi per guardarlo: appeso alla finestra della Stecca con una videocamera al collo a schivare pallettoni. Sarebbe morto, ma non senza incrociare gli occhi di lei. E quando successe, senza trattenersi, le gridò: “Non so chi tu sia, so solo che voglio portarti via!”.
Nel frastuono delle urla anche l’ultimo asse si ruppe e lui cadde slogandosi un piede. Zemfira sentì solo: “Ahia Ahia, ma cazz?”.
Gli amici lo portarono all’ospedale: “Sei proprio un pirla”.
Dopo qualche giorno tornò per una riunione di Cantieri Isola con la stampella e la fasciatura rigida. All’ingresso, vicino al portone, ormai nel buio, risentì quel profumo, il cuore iniziò a battergli forte e scorse quei due occhi. Questa volta da vicino. Zemfira lo guardò, gli accarezzò una mano, intrecciandola alla sua e gli disse: “sì vengo via con te”.
Ancora oggi, Andrea e Zemfira vivono all’Isola. Vivono in una casa occupata di cui nessuno sa. Lo hanno tenuto segreto perché “il baffo” li sta ancora cercando.